Wes (di Roberto Abutzu)
Come tutte le mattine, l’uomo, a testa bassa, guidato dal suo fedele bastone bianco, si dirigeva verso il selciato della chiesetta, sempre nella speranza di riuscire a racimolare il pranzo e, qualora qualcuno da lassù, oggi fosse più benevolo, anche qualcosina per la cena.
Curvo sulle spalle, portava una custodia rigida di una chitarra enorme, di certo uno strumento molto voluminoso e pesante.
Il parroco lo scorse arrivare e gli andò incontro, aiutandolo a sfilarsi quel fardello dalla schiena: Ciao, vedrai che oggi andrà bene, il signore pensa sempre ai più deboli, lui esiste per te.
“Bhe, che iniziasse ad alleggerirmi la chitarra”, rispose il barbone accomodandosi sul terzo gradino e iniziando ad estrarre lo strumento dalla custodia. Ripose poi davanti a sé un sottovaso recuperato alla discarica e lo fissò un attimo. Quanto avrebbe voluto vederlo pieno di monetine, non tutto, anche metà poteva andargli bene.
“Io vado che tra venti minuti inizia la funzione”, e aggiunse, “Senti, se non ti procuri abbastanza per il pranzo, fai così, oggi vieni da me e mangiamo insieme”, e dopo un’affettuosa manata sulla spalla il parroco entrò correndo nel retro della cappella.
L’uomo abbracciò la sua Gibson 335 l5, e iniziò a fare qualche nota lenta, tanto per scaldare le dita atrofizzate dal freddo di quella mattina. Pochi minuti e nella piazza si udirono le note e la voce di un Jazz nostalgico.
I fedeli iniziarono ad arrivare e ogni tanto, il barbone udiva qualche monetina risuonare nel portavasi. Non poteva vederle, cieco da ormai venti anni, però le udiva. E dal frastuono che emettevano a volte ne riusciva a capire il valore. Non era ancora iniziata la funzione e lui immaginava di aver raccolto già due dollari, forse due e cinquanta, l’ultima moneta era stata coperta da un gruppetto di signore che parlava ad alta voce.
Suonò per una mezzoretta stando ben attento a non sovrastare la funzione, ci mancava solo qualcuno si lamentasse del suo Jazz, magari impedendogli poi di fermarsi su quei gradini durante le cerimonie religiose. Ed erano importanti, in parte quei raduni gli garantivano un minimo di sopravvivenza.
Un’ora dopo nel portavasi si contavano almeno undici dollari, a tirar la cinghia sarebbe arrivato a martedì, forse però ci scappava anche la colazione di mercoledì. Tutti se ne erano già andati e lui si accinse a riporre lo strumento nella custodia. Una voce maschile, forse un ragazzo, gli si accomodò di fianco: “Dai, non andare via, suona ancora un po’. È bello ascoltarti, sei bravissimo”.
“Grazie, rispose il barbone cieco, un anziano all’apparenza ma non doveva avere più di trentacinque anni, “Rimarrei volentieri”, e indicò con la mano tremante un punto lontano, “Tra mezzora ci sarà un’altra funzione nella chiesa grande. Devo andar lì”, Capisci, io devo mangiare tutti i giorni, come probabilmente fai anche tu”. Dalla voce il nuovo arrivato non doveva avere più di quindici anni, un adolescente. Almeno questo pareva gentile, non come quei ragazzotti che passavano più tempo a prenderlo in giro per il suo stato precario, che mettersi almeno una volta ad ascoltarlo.
L’adolescente iniziò a fissare lo strumento: “La tua chitarra è bellissima, è una Gibson autentica”, e aggiunse, “Ma sai che se la vendi puoi mangiare per almeno due anni?”
“E poi? Chiese il barbone”, “E come si nutre il mio cuore se mi levi la mia musica?”, e scosse il capo, “Quando sono diventato cieco ho perso tutto, anche il lavoro. Ho perso la mia famiglia, non lo vogliono loro un handicappato per casa. Questa”, e alzò fiero la chitarra, “Questa era di mio padre. L’unica cosa che mi è rimasta della mia vecchia vita”, e chinò il capo nostalgico.
“Senti, io ho trenta dollari”, esclamò il giovane, “Posso darteli e resti qui. Mi fai vedere quei passaggi fantastici che hai fatto prima”.
“Suoni ragazzo?”
“Sì, però un po’ di nascosto e quando sono solo. Pensa che non uso il plettro per non far troppo rumore. Mia madre non fa altro che lamentarsi tutto il giorno”.
“Trenta dollari per cosa? Se intendi comprarmi la chitarra, scordatela”.
“No! voglio solo vedere come fai, poi provo anche io”, e il giovane sfiorò il manico, “Quanto deve essere bella suonarla”.
Il barbone, di solito diffidente, inspirò e si sfilò lo strumento porgendolo al ragazzo: “Dai, fammi sentire cosa sai fare”.
Il giovane imbarazzatissimo prese lo strumento e iniziò a prenderne confidenza. Prima un blues in minore per poi crescere aggiungendo note che apparentemente non c’entravano con la melodia. Uno strano modo di interpretare il Jazz, un contorno musicale che racchiudeva l’insieme dei migliori musicisti di quegli anni.
Il barbone, a quell’insieme di note e accordi si commosse. Il giovane suonava solo con il pollice della mano destra e aveva una sinistra che pareva danzare lungo il manico. Il barbone non ricordava di aver mai sentito nulla di tanto bello. Nel suo buio quella musica gli facevano vedere il paradiso, il suo paradiso, quello dove a lui tornava la vista e i suoi cari lo richiamavano con loro. Scosse il capo, il suo paradiso non sarebbe mai tornato e quel ragazzo con quel modo di suonare gli stava concedendo forse il suo unico paradiso, la musica, quella bella, quella che lui mai sarebbe riuscita a suonare. Scesero lacrime nostalgiche, di quello che aveva perso e di quello che mai avrebbe avuto. Percepì le mani tremare, un sudore freddo iniziò a imperlargli prima la fronte e poi tutto il corpo. E lo sentii prima indurirsi e poi iniziare a pompare a fatica. Il respiro si fece corto mentre le pulsazioni si impennavano. Era la terza volta, gli stenti e le amarezze della vita non avevano proprio fatto bene al suo cuore. Ma stavolta non aveva paura, il dolore non riusciva a intaccare i suoi pensieri, la dolce musica di quel giovane uomo era più forte. Si accasciò su un lato e il giovane smise di suonare chiedendo aiuto al parroco che si avvicinò velocemente facendosi il segno della croce. Anche lui era ben consapevole dell’aspettativa di vita di quel brav’uomo.
“Suona, continua a suonare”, lo incitò il barbone ormai sdraiato totalmente.
“Chiamo il dottore”, disse il parroco che venne però trattenuto dalla mano grinzuta dell’uomo a terra: “No! Resta qui, ascoltiamo la musica”, e il rantolo flebile fece capire ad entrambi che un dottore ora non serviva più.
Il giovane sconvolto riprese a suonare. Il barbone con quel poco di aria che gli rimaneva chiese: “Come ti chiami figliolo”
“Wes, Wes”, e un po’ di lacrime caddero sulla mano sinistra che continuava a danzare sul manico.
“Wes, tienila tu”, disse sottovoce il barbone, “Prometti che continuerai a suonarla per me, tutti i giorni, e falla diventare grande insieme a te. Diventerai grande ragazzo mio, non dimenticarmi e sappi che mi hai dato la morte più dolce che potevo desiderare. Buona fortuna Wes”, e con un ultimo sussulto, il barbone raggiunse il suo paradiso iniziando anche lui a danzare insieme alle dita di quel giovane uomo.