L’Isola (di Filippo Mastramante)
Isola di San Pietro, A.D. 1738
Scrivo queste righe nella consapevolezza che potrebbero essere le mie ultime su questa terra. Chi le leggerà potrà, forse a ragione, considerarmi un folle. Rimane in me la speranza che, dopo aver letto, mi si conceda almeno il beneficio del dubbio.
Quale sia il mio nome poco importa. Vi sarà sufficiente sapere che in vita sono stato un erudito, un viaggiatore e, soprattutto, un fervido appassionato dell’occulto e di tutto ciò che con la semplice ragione si fatica a spiegare.
Fu proprio questa mia passione che mi portò in quest’isola, gioiello incastonato in un mare di smeraldo. Lande selvagge, luoghi incontaminati e ricchi di una storia talmente antica da sconfinare nella leggenda.
Tutto ebbe inizio quando un mio carissimo amico, professore emerito di storia e antiche culture ormai scomparse presso la prestigiosa Miskatonic University, ad Arkam nel Massachusetts, mi inviò una missiva. Nella stessa, dopo i saluti di rito e di seguito alle convenzionali ma sentite frasi di amicizia, mi informava che presso una piccola isola, non troppo distante da una delle ultime mete del mio viaggio per l’Europa, avrei con molta probabilità potuto imbattermi in un villaggio di pescatori che, a suo dire, sarebbe stato di grande interesse per una sua importante ricerca in merito al culto dei Grandi Antichi, alla quale stava alacremente lavorando da ormai tre anni.
Ovviamente accettai, non senza entusiasmo. Col senno di poi, avrei fatto meglio a bruciare quella lettera e dimenticare di averla mai ricevuta.
Ad ogni modo, seguendo le sue precise indicazioni, arrivai presso quel villaggio, in quest’isoletta dimenticata e quasi completamente disabitata.
Vista la mia indole socievole, non faticai a instaurare un buon rapporto con gli indigeni, sebbene parlassero un idioma astruso e difficilmente traducibile.
Già dalla prima notte fui funestato da incubi che, al risveglio, non riuscivo più a ricordare, sebbene le lenzuola madide non facessero presagire nulla di buono.
Il terzo giorno del mio soggiorno presso il villaggio, fui svegliato nel mezzo della notte da un’inquietante litania che, sebbene incomprensibile nel significato, suonava aberrante alle mie orecchie.
Dalla piccola finestrella dell’umile dimora presso la quale pernottavo, potei scorgere, alla tenue luce della luna calante, una singolare processione di umanoidi che, forse complici la suggestione e le ombre della notte, parevano molto simili a una sorta di pesci antropomorfi.
“Dagon, camaha Pninghului mglw’naft sdw’nah”, questi i suoni che uscivano da quelle bocche che poco avevano di umano, talmente spaventose nella loro gutturale cadenza che si impressero a fuoco nella mia memoria.
Assalito da chissà quale inspiegabile impulso, probabilmente generato dalla mia insaziabile sete di conoscenza, decisi di seguire quella aliena processione, sebbene la ragione mi urlasse di fuggire da quella follia.
Approfittando del buio riuscii a seguire quegli esseri fino ad un’alta scogliera, presso la quale, immerso in un mare nero e minaccioso, svettava un imponente monolito. La processione si fermò sulla la riva mentre la litania diventava più forte e incalzante.
Che il Signore abbia pietà della mia povera anima, ma giuro su quello che di più sacro sono a conoscenza che, quando la litania giunse al suo culmine estatico, ho visto con questi miei occhi una terribile e gigantesca divinità con sembianze da pesce ergersi dalle acque oscure. A quel punto anche l’ultimo barlume di ragione, che stava faticosamente aggrappato al mio essere, mi abbandonò. Devo aver urlato il mio orrore con quanto fiato avevo in gola senza esserne cosciente, dal momento che quegli esseri orripilanti si girarono all’unisono nella mia direzione, con uno scatto innaturale.
A quel punto la divinità immonda emise una sorta di ruggito gorgogliante, abietto alle orecchie di qualsivoglia essere senziente. Forse un ordine ai suoi adepti, i quali iniziarono a venire verso di me continuando a recitare quelle parole avulse all’intelletto per quanto pregne di ancestrale potere.
Fuggii, corsi per quanto le mie vecchie gambe mi permisero e, nella confusione che la paura instillava nella mia mente, mi rifugiai all’interno della misera baracca che mi aveva visto ospite i pochi giorni che, ahimè, avevo pernottato in quel villaggio maledetto.
Hanno circondato le misere quattro mura in mattoni di fango e paglia.
Sento i colpi, forti e incessanti.
Non so per quanto ancora potrà resistere la grezza porta di assi in legno.
Non gli premetterò di prendermi vivo.
Lascio queste poche righe, scritte di fretta e in preda a una frenesia insana, a chi mai potrà leggerle. Le nasconderò in una profonda crepa nelle mura che saranno anche la mia tomba.
La porta sta cedendo.
Non c’è più tempo.
Il mio rasoio da barba, mi reciderò la giugulare con il mio rasoio da barba.
Che Dio mi perdoni.