I racconti dei lettori - La principessina Cho Cho-San
I racconti dei lettori

La principessina Cho Cho-San (di Davide Sirignano)

Cho Cho-san, era una ragazza molto giovane e veniva da un piccolo paese vicino Tokyo. Aveva una promettente professione di igienista dentale alle spalle, ma un giorno conobbe un affascinante toscano durante una vacanza in Italia, Arturo, e se ne innamorò: a suo dire lo avrebbe seguito ovunque, persino in un altro continente: si trasferì in Italia pochi mesi dopo. Non si erano mai sposati a causa dei conflitti generati dalle diverse religioni di cui facevano parte: quella cattolica e quella shintoista.

Cho Cho-san aveva un viso pulito, infantile, come una bambola Hakata antica: curato nonostante lo svilupparsi della malattia. Era un grande manager e tour operator che puntava su un tipo di turismo non convenzionale, quello enogastronomico. Sapeva benissimo di essere l’anello di congiunzione tra due continenti e ne andava fiera sbandierando i suoi successi lavorativi: spesso apriva il suo portatile sul letto, nella pagina web della sua azienda, per leggere mail o per sostenere videoconferenze con i suoi collaboratori.

Cominciò a precipitare tutto quando un giorno Cho cho-san si sentì male nella sua villa toscana: svenne dal dolore mentre tentava di esplicare le sue funzioni eliminatorie quotidiane. Fu colpita da una fitta addominale che la fece piombare sul pavimento freddo di gres avorio. Fu ritrovata svenuta lì dopo qualche ora.

Dopo un breve ricovero in oncologia, dove vennero provate alcune terapie chemioterapiche, a neanche trentacinque anni compiuti, l’esile ragazza fu trasferita sul letto di un Hospice territoriale. Ricordo il primo giorno di degenza, mentre le somministravo le sue prime cure palliative, mi guardava impaurita conservando ancora la sua bellezza: era consapevole di dirigersi verso l’interpretazione finale della sua tragedia personale, come la Madama Butterfly sconfitta dal dolore dell’abbandono.

La soprannominai la principessina Cho Cho-San: ero solito chiamarla in questo modo davanti i colleghi che dapprima sorrisero, ignorando il vero significato di questo nome, ma poi assorbirono il termine come proprio a causa del suo impronunciabile nome giapponese. Molte volte le dissi di non andare in bagno da sola, di suonare il campanello per farsi accompagnare, ma la sua autonomia e la sua indipendenza prevalevano su ogni raccomandazione. La principessina aveva trovato un metodo molto originale per spostarsi: si ancorava ad un’asta di fleboclisi con le sue mani affusolate e si dirigeva nel bagno. Questo metodo sembrava efficace, pertanto ci assicuravamo ne avesse sempre una ai lati del letto.

In una giornata autunnale piovosa somministrai a Cho qualche milligrammo di morfina sottocute sperando di alleviare il suo dolore. Per distrarla un po’ mi sedetti nella poltroncina di fronte al suo letto e le chiesi di raccontarmi della sua famiglia. La giovane donna aveva un fratello bellissimo come lei: sembrava un modello della Maison Dior, tanto che le mie colleghe infermiere del reparto non potevano fare a meno di emettere un brusio al suo passaggio! Suo fratello fu il primo ad arrivare da Tokyo per assisterla: veniva costantemente tutte le mattine, talvolta scrivendo sotto dettatura di Cho, le lettere da inviare al suo staff. Scorrendo il cellulare mi mostrò la foto del papà: uno sportivo capace di correre cinque chilometri al giorno, pur avendo superato i settant’anni. Poi vidi la sua mamma devota alla famiglia e che aveva sempre curato tutti con orgoglio.

La principessina era molto amata e stimata: la sua stanza è piena di visitatori. Amiche italiane e straniere, quasi a sopperire la mancanza dei suoi familiari troppo lontani per poterla visitare ogni giorno. Suo marito Arturo veniva a visitarla quando poteva: delle volte in via del tutto eccezionale lo facevamo entrare in reparto anche dopo le due di notte.

Mi sembrava impossibile che il cancro si fosse fatto strada in una ragazza così giovane. Un giorno, in fondo, mi aspettavo si alzasse dal letto, indossasse il Kimono di seta giapponese, di panna e d’arancio, e mi portasse, come mi aveva promesso nelle nostre chiacchierate, a vedere le meraviglie culinarie e enologiche della Val d’Elsa e della Val D’orcia, descritte nel suo sito web turistico: sotto braccio come l’ufficiale Pinkerton, ritornato sui suoi passi, volevo guardare l’arrivo della primavera Toscana con lei, la mia prima primavera toscana, e confrontarla con quella giapponese delle campagne vicino Tokyo. Avrei voluto sentire il vento sfiorare il nostro viso con i petali di pesco fluttuanti intorno a noi, come quei fiori di pesco di quel ramo che le portai, trovato nel piazzale dell’ospedale. Per questo motivo mi rifiutavo di guardare la sua diagnosi e cercavo di dimenticarla per immaginare una guarigione: di poterla vedere, un giorno, risorgere con quel kimono di panna e i suoi capelli corvini sorretti da uno tsumami kandashi dorato in una posa orientale da geisha.

Cho Cho-San conosceva benissimo il suo destino. Guardava costantemente il cielo dalla sua finestra e non vedeva più i vigneti spogli d’autunno: cercava un contatto con la sua terra d’origine perché era consapevole di non poter più affrontare un viaggio così lungo per il Giappone: voleva gettarsi nelle spirali di quei fiumi orientali ricoperti da petali rosa e rincorrere ancora il suo cappello di paglia rapito dal vento.

Suo marito la coinvolgeva ancora nel lavoro, nella logistica e nell’organizzazione dell’azienda, forse per distrarla o per distrarsi lui stesso dalla disperazione, ma, giorno dopo giorno, le sue forze cominciarono a vacillare. A volte chiudevo la porta per lasciarli discutere: Cho si arrabbiava di fronte alle debolezze del marito. Il suo compagno di vita spesso piangeva, si disperava cercando di proporle delle cure innovative, però la principessa era stanca di illusioni e si ammutoliva. Restava muta sino alla fine della visita, anzi a volte chiedeva ad Arturo di andarsene a casa e prendere qualche decisione da solo.

Dopo un lungo viaggio in aereo arrivarono il papà e la mamma di Cho: mi chiesero di appendere sulla parete una dragone di carta variopinto. Mi colpii il suo azzurro vivo e il suo giallo canarino. La principessina mi rivelò, successivamente, che il drago giapponese portava buona fortuna e scacciava le influenze cattive con la sua imponenza. Io l’ho interpretai come un tramite per arrivare all’aldilà: Cho doveva lasciare la sua prigione fisica per ritrovare la sua libertà spirituale a cavallo di quel drago colorato e mi rivelò la data precisa in cui questo sarebbe avvenuto. Quando raccontai questo episodio ai miei colleghi mi presero in giro e molti risero alle sue spalle. In compenso, tra le loro risate, avevo con me la busta di carta che mi aveva regalato la mia amica principessa: all’interno c’era un servizio da tè giapponese. Alcune tazzine erano mancanti e la teiera era sbeccata, ma non mi importava: osservavo le decorazioni delle geishe immerse nel paesaggio giapponese con orgoglio. Sulle seto-yaki erano raffigurate tre geishe: quella sorridente e frivola dal kimono blu, quella seria e stoica dal kimono rosso e quella triste e sconsolata dal kimono arancione.

Quei primi giorni di primavera le rose erano già sbocciate, alcune addirittura si erano aperte in anticipo. Non so perchè quel pomeriggio le guardavo con insistenza in giardino. Avevo un senso di spossatezza e stanchezza perchè avevo lavorato di notte e, per ritornare a casa, avevo letteralmente rincorso il treno regionale di Chiusi per arrivare a Roma. Nel pomeriggio, a quella sensazione di vuoto, si aggiunse il rumore insistente delle cicale, dei grilli e il fruscio dispettoso del vento: sentì come delle rapide di un fiume agitarsi dentro la testa. La notte arrivò in fretta e mi coricai senza accendere nemmeno una luce: osservavo solo i spiragli di luce arrivare dalle lampade solari conficcate nei vasi del giardino. Mi addormentai in fretta in un raro sonno profondo, come se andassi in coma. Alle sei circa mi svegliai di soprassalto constatando un profondo senso d’inquietudine e di ansia in quell’alba mattutina: all’improvviso una lacrima si fece strada sulle pieghe del mio volto. Non volevo prendere il cellulare perchè avevo paura, così fissai il soffitto per un’ora ancora. Toglievo sempre i suoni dal cellulare dopo uno smonto notte, però mi ero reso conto di una vibrazione poco prima delle sei. Mi feci forza! Lessi il messaggio della collega che avevo pregato di avvertirmi se a Cho fosse successo qualcosa: nelle prime ore del mattino era morta la mia principessina . Se ne era andata in silenzio nella notte, senza lamentarsi, senza dir nulla, con una grande dignità: sola per non farsi vedere da nessuno e per non disturbare. Sono convinto che quella sera avesse mandato apposta in albergo i suoi genitori e non per farli riposare… La mia collega infermiera non sentì reazioni emotive scomposte quando li avvertì per telefono del suo decesso, come se già sapessero la notizia. In quel momento mi ricordai la predizione di Cho sulla sua morte: mi precipitai verso il calendario dove avevo segnato quel giorno e sbiancai. Mi vennero i brividi nel constatare che il giorno della morte coincideva con quello appuntato: il ventidue marzo. Piansi di nuovo perché credevo di aver perso un’amica, ma ora Cho Cho-San era libera di rincorrere il suo cappello di paglia rapito da un vento dispettoso.

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