I racconti dei lettori

La dama bianca (di Davide Sirignano)

La dama bianca non evoca solo ricordi ciclistici, pittorici o cinematografici.

Mi ricordo della dama bianca e del suo funerale in una chiesa dietro i fori imperiali. Lei era vestita di bianco puro, come la neve, e sulla testa aveva una velina con una croce rossa fiammeggiante. Era una divisa molto importante per quella famiglia. Rammento, in quel periodo, che gli esami dell’ultimo anno erano imminenti: mi mancava solamente un corso integrato e poi il tirocinio per la tesi del corso di infermieristica. Ero molto preoccupato e oppresso dalle nozioni del corso di etica e, soprattutto, dalle discussioni con la professoressa, presidente del corso, su cosa era etico o no per la nostra professione di infermieri. Avevo deciso di non espormi più al pubblico ludibrio dopo la negativa esperienza con un tutor didattico, che aveva fatto di tutto per ostacolare la mia carriera universitaria: l’avevo contestato perchè aveva messo sullo stesso piano l’omosessualità e la pedofilia.

Mi ero imposto di non parlare più, una congiura del silenzio verso me stesso, perché ero molto stanco e provato da quei tre anni universitari duri in cui avevo dato letteralmente il sangue. Così quando sentii dire da quella docente di etica che l’omosessualità era una perversione cominciai a picchiettare le dita sul banco. Il mio colorito assunse un tono rossastro e dalla mia bocca esplose: “L’omosessualità non è una perversione, è parte integrante dell’identità, è la preferenza affettiva di una persona, come l’eterosessualità!”.

La professoressa si alzò di scatto dalla cattedra e cominciò a imprecare contro di me: in quel momento mi accorsi quanto fosse importante avere degli alleati, infatti, alcuni colleghi vennero in mio soccorso, almeno quattro su un corso di trenta persone era un bel traguardo, e aggiunsero altre importanti considerazioni, così lei concluse “Ci vediamo agli esami allora!”.

Erica, la dama bianca, ebbe un funerale lungo, sentito, gremito di gente riconoscente. Molta di quella gente l’accompagnava nei suoi viaggi di volontariato verso Lourdes e Medjugorje.

“Ha accompagnato tanti malati!” si sentiva continuamente durante quella celebrazione che mi lasciò un segno indelebile dell’anima: Erica rappresentava qualcosa d’importante per quelle persone.

Aspettavo ansiosamente quell’estate: volevo riposare il corpo e la mente. Eppure stavo ancora davanti la dama bianca, immobile nel suo letto, pronta ad andare in cielo, anzi, probabilmente implorava Dio di poter affrettare quella fine lenta e ineluttabile: Erica era stanca di vivere perché aveva dato tutto, ai suoi numerosi figli, alla gente che si rivolgeva all’Unitalsi di cui faceva parte.

Quella stanza della casa di riposo vicino via Appia Antica era un continuo viavai di gente: figli disperati, figlie con lo sguardo nel vuoto, parenti affezionati, amici grati della sua esistenza.

La dignità e la classe di quell’ultima notte di assistenza fu unica: la temperatura si alzò rapidamente perché la dama aveva un cancro all’utero allo stato terminale metastatizzato in diversi distretti e soffriva di queste febbri tumorali. I medici decisero di non far nulla. Arrivarono finalmente i suoi quattro figli e si sedettero intorno al letto: era come se nella stanza ci fossero dei quadri sulla parete bianca colorati dai ricordi che i familiari evocavano. L’unico figlio maschio scoppiò a piangere, convulsamente, rammentando a voce alta quando sua madre lo portava a scuola. Erica prima di farlo entrare a scuola guardava le sue gambe rammentandogli: “Hai le gambe troppo secche devi mangiare di più a mensa!”

Le altre tre sorelle si guardavano negli occhi, ma erano dure e contegnose. Se una lacrima scendeva sul viso di una dall’altra veniva subito asciugata. Le loro mani necessitavano del contatto della madre: chi toccava la gamba, chi toccava le mani, chi toccava il viso, chi i capelli. Io mi limitavo a metterle la borsa del ghiaccio sulla fronte, a pulirle inutilmente il sudore e a controllare la flebo per l’idratazione.

Il mondo improvvisamente si fermò. I platani cittadini verso il tramonto rimasero immobili sullo sfondo rosso del cielo di Roma. Il tempo scandì l’ultimo respiro di Erica: si era addormentata per sempre! Il suo viso sembrava più sereno, candido e tranquillo. Finalmente aveva raggiunto il suo creatore.

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